giovedì 14 ottobre 2010

Il pranzo alla mensa fu molto buono, devo dire, niente a che vedere con quelli che avevo consumato su in reparto ; non me ne vogliano gli " chef " ospedalieri, ma nonostante gli sforzi dei ragazzi che al mattino venivano a proporre il menù per il giorno dopo, le pietanze non rispondevano proprio alle aspettative e si affidavano alla fantasia individuale per l'interpretazione e il gusto. Ma si sa, non è bene far i difficili e quindi era a posto anche così, considerando il luogo, la condizione e la precarietà di ogni cosa e poi c'era il piacere di condividere quei momenti con le mie compagne e ciò mi dava veramente tanta serenità. Mentre scrivo mi accorgo di ricorrere spesso alla parola " serenità ": è vero, non ne posso fare a meno, perchè è stata la cosa che ho cercato di tenermi stretta fin dall'inizio, quando cominciai a realizzare che non doveva essere niente di passeggero quel " bozzo " comparso all'improvviso proprio la mattina dell'antivigilia di Natale. Sulla serenità aveva insistito anche il dottor A. C. nel nostro primo incontro per la riuscita della terapia e la possibilità di guarigione e perciò me l'ero stampata dentro , nella mente e nel cuore, e quando la sentivo vacillare mi guardavo allo specchio e sorridevo: una piccola infusione di felicità.
Durante la permanenza in ospedale avevo instaurato anche un bellissimo rapporto con le figlie di mamma Ripalta, Anna, Milena e Caterina, molto diverse tra loro ma affini per sensibilità; mi trovai subito bene e vederle tutti i giorni divenne per me un'abitudine piacevole e familiare. E' strano che in un luogo come quello il tempo appaia lento e insieme veloce, e tutto ciò che avviene sembra antico e recente; così le conoscenze diventano a pelle amicizie e gli accadimenti danno l'immediata sensazione di essere stati già vissuti. In un breve spazio di tempo riesci a vivere quasi un arco di vita, breve ma fortemente intenso di emozioni.

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